Editoriale

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Editoriale

LA COMUNICAZIONE CHE GENERA CONOSCENZA 

“scientia” e “usus”

Due o tre cose che so di loro 

Intervista a Luca Toschi 

Luca Toschi

Fondatore e Direttore di “scientia Atque usus”

Direttore del Center for Generative Communication (CfGC) dell’Università di Firenze e del Laboratorio Center for Generative Communication del PIN – Polo Universitario “Città di Prato”,
Servizi didattici e scientifici per l’Università di Firenze

Professore Ordinario di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi.

C’era davvero bisogno di un nuovo giornale?

Forso no. Ma certamente ne aveva bisogno, come strumento essenziale per lavorare al meglio, la comunità che ruota attorno ai progetti di ricerca e di consulenza di sAu.

Proprio per il modo in cui questi ultimi sono sviluppati in aree sociali, economiche, culturali e politiche le più diverse eppure sempre fortemente intrecciate, correlate fra loro.

Il design del logotipo delle Officine ha cercato di rappresentare il più possibile l’idea di un luogo fisico, spaziale, dove si lavora, si inventano e si costruiscono cose nuove. Da qui vengono le due “f” della scritta, che raddoppiano la curva delle lettere per rimandare alle volte degli opifici, dei luoghi deputati alla creatività operosa.

La parola “officina” ci fa pensare a qualcosa di guasto o da riparare. Che cosa?

Quando penso alla parola officina mi tornano in mente le botteghe artigiane e artistiche della Firenze prima dell’alluvione del ‘66. L’officina può essere un luogo dove riparare le cose guaste, il che sarebbe già tanto; ma anche un posto dove si inventano e si realizzano cose belle e nuove. L’arte, intesa come capacità di inventare e creare, realizzare, appunto, concretamente e sperimentalmente ciò di cui abbiamo bisogno, ma che la Tecnica ancora non è in grado di produrre.

Da questo punto di vista le Officine sono un modo di pensare e di fare per cercare di cambiare la Comunicazione così come ancora oggi è troppe volte intesa. Un’idea di comunicazione, quest’ultima, e un insieme di relative pratiche che da anni ormai risultano essere vecchie, superate, rivelandosi, effettivamente, non uno strumento per migliorare ma per peggiorare la nostra vita. È una comunicazione malata, causa primaria di tanti problemi nel campo sociale, economico, culturale che così comunicando non solo non risolviamo, ma aggraviamo.

Quindi?

Sperimentando, in termini molto concreti ed effettuali, un modo di concepire e di praticare una comunicazione totalmente diversa da quella vecchia, il termine “Officina” non è soltanto un luogo dove si ripara ciò che merita di essere riparato, ma soprattutto è il luogo in cui inventare e costruire il nuovo, l’inedito di cui si avverte un grande bisogno.

Le “Officine” sperimentano, si divertono a cercare di realizzare quanto appare difficile, se non impossibile, inopportuno, poco conveniente. Poco ‘economico’ secondo una visione di ‘economia’ ormai superata dai fatti e che dovremmo abbandonare per inventarcene una radicalmente diversa.

Cioè?

Quanto i vecchi modelli culturali, primo fra tutti quello della Comunicazione, così come ci ostiniamo a intenderla e a praticarla, siano perdenti è risultato, risulta evidente, davanti a un fenomeno come il Covid-19. Che segna non solo un evento inedito nella storia del genere umano, ma un cambiamento epocale che già avevamo iniziato a comprendere decenni fa. La comunicazione di questo virus è risultata molto più potente di quella che siamo riusciti a mettere in atto per cercare di conoscerlo, contenerlo e vincerlo. Basti pensare al rapporto, alla comunicazione assai inadeguata, se non disastrosa, fra la Scienza, i risultati scientifici, i saperi che mano a mano emergevano dalla ricerca, e il suo Uso concreto, nei comportamenti quotidiani, da parte della popolazione mondiale.

Per non parlare di quanto sta accadendo in questi giorni in Ucraina. Ma lasciamo da partire questo discorso, sulla cultura che noi abbiamo della Guerra, l’espressione più esplicita e diretta della nostra cultura della Comunicazione.

Scientia Atque usus (sAu): perché avete scelto questo nome?

La ragione per cui ci siamo trovati d’accordo su quest’espressione risale ad una convinzione molto precisa: che la necessità di dare vita ad un nuovo modello comunicativo attraverso la concretezza dei nostri progetti, ad una nuova visione della comunicazione stessa, dovesse essere cercata nel costruire una relazione (Atque) radicalmente, paradigmaticamente diversa, fra lo sterminato popolo dell’usus e coloro che, sotto varie forme, si occupano di scientia.

L’Usus continua ad essere vittima di una visione che lo vuole passivo, ignorante, incapace di dare un qualsiasi contributo alla ricerca, alla scienza, alla politica, a qualsiasi forma d’innovazione: tanti uccellini impossibilitati a volare, cui va messo nel becco affamato il cibo dell’innovazione, della verità. Cibo che spesso, al di là dei proclami manipolatori o anche delle buone intenzioni, propone comportamenti di usus improntati a puro consumo; indotti da azioni persuasorie mirate a far credere piuttosto che a facilitare la comprensione e il relativo giudizio critico. D’altro canto, il mondo della scientia appare privo dell’ascolto dei bisogni percepiti e\o reali che emergono dalla quotidianità dell’usus. Una risorsa fondamentale per indirizzare e rafforzare la ricerca, con la sua necessaria autonomia.

Verso dove?

Verso un mondo nuovo, che già intravediamo oltre la soglia culturale che fatichiamo a superare, confusi da tante ‘prediche’ – le importanti indicazioni sull’inclusione e sulla partecipazione che vengono dall’Unione Europea spesso si riducono a proclami privi di effetto -. Un mondo nuovo che non può che essere il risultato di un processo generativo, dove tutti i soggetti sociali, nella distinzione delle competenze, delle conoscenze, delle stesse visioni della realtà, concorrono a realizzare un progetto comune sostenibilmente realizzabile nella misura in cui sarà capace di valorizzare ogni diversità.
Il mio non è un auspicio. È una semplice constatazione basata sui risultati che, se non sempre, molto spesso ottengono i nostri progetti improntati ad una visione generativa della comunicazione, che poco o niente ha a che fare con il vecchio modello della comunicazione.

concorrono a realizzare un progetto che sarà comune solo nella misura in cui sarà capace di valorizzare ogni diversità

Come potremmo definire questo vecchio paradigma di comunicazione?

È un modello gerarchico (“io so, tu non sai”), trasmissivo (“io ti trasmetto, con le migliori intenzioni, la conoscenza”), emulativo (“ti do dei modelli che devi ripetere”), meccanicistico (“l’organizzazione vista come un meccanismo parcellizzato e parcellizzante, governato, per ‘comodità’ dell’uomo, dalle macchine”). Insomma tutte idee e comportamenti oggi da evitare accuratamente se vogliamo raggiungere risultati adeguati ai bisogni del nostro tempo. Soprattutto, se vogliamo attingere e fare tesoro delle immense risorse che la complessità in cui viviamo ci offre.
Abbiamo bisogno di intelligenze collettive e cooperanti, di una comunicazione che aggreghi, attorno a progetti-prodotti concreti, gli stakeholder più diversi in una logica di mutualità.
La scienza oggi ha bisogno vitale dell’uso, pur in una distinzione di ruoli che è cruciale. L’usus è bellissimo e terribile. Ora più che mai, una scienziata o uno scienziato, un uomo o una donna di cultura, ha sempre più bisogno del mondo dell’uso per sperimentare. L’usus non è una cavia, un contenitore da riempire, ma è parte attiva della ricerca scientifica. Questa è una delle ragioni per cui noi riteniamo che non ci sia ‘scienza’ senza ‘uso’, e viceversa. Anche perché l’usus ha una sua scientia, vale a dire una sua capacità di conoscere, sperimentare e condurre esperienze preziose per gli scienziati.
Dall’altro lato è prezioso per il mondo dell’uso il fatto che ci siano scienziati e figure autorevoli con cui comunicare. Insomma è necessaria una comunicazione che costruisca un Nuovo Patto fra questi due mondi. Questo non significa impoverire la scienza, tutt’altro. Essa deve anzi stare in mano alle persone che hanno una formazione e una professionalità adeguata. Il mondo dell’usus è essenziale per la scienza se è critico, se rivendica il suo ruolo come soggetto fondamentale per la costruzione di una nuova scientia.

Un esempio concreto?

Restiamo nell’ambito della salute. Non esiste il concetto di ‘malattia’ ma esistono i ‘malati’. Questo è un presupposto importantissimo per chi sta dalla parte dell’uso – pazienti, familiari, amici, persone senza scienza medica – ma anche per gli scienziati, i medici che hanno bisogno di sapere come si manifesta nei casi concreti, e cioè in ogni singola persona, ciò che definiscono ‘malattia’.

Un’entità, la malattia, astratta, certamente, ma anche assai concreta, che si sviluppa in infinite forme. E per vincere una malattia o prevenirla, quindi, è necessario che chi la vive in prima persona sia messo in grado di comunicare con il professionista la propria, specifica situazione, esperienza.
Una comunicazione basata sull’ascolto reciproco e sulla reciproca azione, intelligente, informata e sperimentale. Sperimentale perché ogni storia, ogni scientia, è anche una storia (un usus) a sé. “scientia Atque usus”, appunto.

Intorno a questo Atque, tra i due mondi, si viene a creare una nuova comunità che dà vita ad un terzo mondo, del tutto diverso dal passato.

La storia della A maiuscola nel logo di sAu ci riporta alle prime riflessioni su scientia Atque usus. La community di sAu, infatti, lavora per costruire percorsi, collegamenti sulle terre di mezzo che tradizionalmente separano il mondo della ricerca – scientia – e le e le infinite attività sociali, economiche, culturali di tutti coloro che quotidianamente lavorano in settori che vanno dall’agricoltura alla sanità, dal cultural heritage all’industria, il mondo dell’usus. Per questo la A è stata disegnata a mano: non è stato possibile individuare un font standard che permettesse di collegare in maniera efficace, con un segno grafico univoco, le due lettere che indicano la scientia – la “s” – e l’usus – la “u”. E per questo la A è maiuscola: perché indica il luogo sul e nel quale la community di sAu indaga, ricerca, sperimenta.
L’A maiuscola nel logo sAu allude a questo?

Certo. Abbiamo deciso di usare la “A” maiuscola per sottolineare l’esistenza di una terra di mezzo, ”Atque”, d’importanza fondativa, vastissima quanto inesplorata, intentata: una specie di New Frontier. Quando John F. Kennedy usò questa espressione volle indicare un mondo possibile che la guerra fredda riteneva impossibile.

Oggi per guarire questo mondo dobbiamo tornare a sperare, concretamente ad immaginare, progettare e a cercare di realizzare realtà che sono ritenute inattuabili, impraticabili, velleitarie. Ma, per farlo, ci vuole un nuovo modello di comunicazione.

L’”Atque” questo vuole indicare. Fra la scienza e l’usus non c’è una realtà che comanda sull’altra ma ci deve essere cooperazione, mutualità, rispetto e valorizzazione reciproca. Per riprendere l’esempio che si faceva della malattia: nell’obiettivo comune di vincere la malattia.

Questo rafforza, al tempo stesso, la salute del paziente e la professionalità del professionista esperto. E sta ad indicare un nuovo patto tra le due parti che fino ad oggi, seppur con le migliori intenzioni, hanno operato lungo una linea di comunicazione – me lo faccia ripetere – gerarchica, trasmissiva, emulativa e meccanicistica.

La vecchia comunicazione, infatti, tende a trasformare gli esseri umani, a tutti i livelli, in macchine.

Si nota il ricorso alla lingua latina. È davvero necessario usare il latino?

Intendiamo sottolineare, con il Latino, che la storia ha dei tempi lunghissimi e dietro l’impressione della brevità e del consumarsi del tempo breve persistono onde lunghe di cui dobbiamo tenere conto: perché noi navighiamo ancora sulla cresta di queste onde di portata immensa.

Nel nuovo che proponiamo c’è tanto di antico. Certi problemi del genere umano – e la comunicazione è uno di questi, se non il più antico – vengono da lontano. Le radici del problema dell’automazione, per esempio, così centrale oggi, non è certo nuovo per l’umanità. Nuova, inedita è l’intensità, spazio-temporale, degli effetti delle nuove tecnologie.

A cominciare dall’Intelligenza artificiale.

Ci viene in mente Dante “sì che raffigurar m’è più latino”, ossia più chiaro?

Giusto!

Ma c’è anche chi potrebbe pensare al latinorum di cui parla Renzo nei Promessi Sposi, per fare riferimento al parlare oscuro dei preti e non solo! Anche se qui sta a significare proprio il contrario.

“His difficultatibus duae res erant subsidio, scientia atque usus militum,

quod superioribus proeliis exercitati quid fieri oporteret non minus commode ipsi sibi praescribere quam ab aliis doceri poterant,

et quod ab opere singulisque legionibus singulos legatos Caesar discedere nisi munitis castris vetuerat”

Gaio Giulio Cesare, De Bello Gallico, II, 20

Chi sono gli animatori della comunità di sAu?

Credo che la comunità di sAu non abbia bisogno di animatori o fondatori. Alcune persone più o meno giovani hanno intuito, attraverso un lavoro di tanti, oppure pochi anni, che c’era bisogno di qualcosa di diverso. Non abbiamo, non hanno inventato nulla. Cerchiamo semmai di dotarci di alcuni strumenti per far sì che bisogni così diffusi e sentiti in aree sociali, culturali, economiche, politiche diverse convergano verso un progetto condiviso. 

L’obiettivo è quello di creare le condizioni perché le modalità comunicative che si sperimentano nei progetti con il sistema di sAu “generino” innovazione all’interno del contesto comunicativo in cui le comunità operano.

Tutti dunque animano la comunità di sAu, ed essa avrà un futuro soltanto se renderà il modo di vivere professionale e privato di chi la anima migliore. Più incisivo e al tempo stesso più appassionante.

Chi è l’editore?

Daniele Olschki.

Una persona quindi, prima ancora che il marchio di una casa editrice. 

Un editore a cui è riconosciuto un alto prestigio a livello internazionale ed è presente nelle biblioteche di tutto il mondo. 

L’editore più classico e attento a difendere una cultura della Scientia.

Perché andare da lui, allora? 

Perché ritengo che quella Scientia sia un patrimonio importante, che deve abbattere la cinta muraria che fino ad oggi l’ha troppo distinta dal mondo dell’Usus. 

Anche il logo di Leo S. Olschki Editore viene da lontano, e racconta la lunga storia di questa importante casa editrice fiorentina, fondata nel 1886 da Leo Samuele Olschki. Nell’articolato percorso che portò il fondatore della casa editrice da Johannisburg, nella Prussia orientale, a Firenze, il periodo passato a Venezia lasciò per sempre impresso sui suoi volumi il marchio dello stampatore veneziano di fine ’400, Lazzaro Soardi, che porta nel suo logo le stesse iniziali del fondatore. E che ancora oggi caratterizza il logo dell’editore Fiorentino.

Del resto penso che, a parte i tanti errori in cui è incorsa, e continua a inciampare, la cultura accademica italiana, una sua parte, la parte migliore – si pensi, per esempio, alla rivista “Belfagor”, fondata da Luigi Russo nell’immediato secondo dopoguerra – abbia sempre avuto l’intenzione di lavorare sull’Atque tra scientia e usus nei termini che abbiamo detto. Qualcuno potrebbe stupirsi che un editore così di alto profilo abbia accettato la nostra proposta. Per me non è strano. Conosco Daniele Olschki sin da quando eravamo molto giovani, e so che la sua è una cultura molto sensibile a ridisegnare ciò che si intende per Scientia e per Usus.

Il logo di Leo S. Olschki Editore racconta la lunga storia di questa importante casa editrice fiorentina, fondata nel 1886 da Leo Samuele Olschki. Nell’articolato percorso che portò il fondatore della casa editrice da Johannisburg, nella Prussia orientale, a Firenze, il periodo passato a Venezia lasciò per sempre impresso sui suoi volumi il marchio dello stampatore veneziano di fine ’400, Lazzaro Soardi, che porta nel suo logo le stesse iniziali del fondatore. E che ancora oggi caratterizza il logo dell’editore Fiorentino

In che modo si può aderire alle Officine o alla comunità di sAu?
Non so se sia corretto dire che “si entra a far parte o si può partecipare”, sAu si caratterizza come comunità di progetti. Chiunque lavora sui progetti e ha un contributo da dare, non solo trova le porte aperte, ma diventa proprietario del progetto stesso. Ogni progetto ha un’infinità di autori e proprietari. Questa appartenenza viene segnata dal fatto di poter dare un contributo affinché un progetto, un prodotto ottenga il migliore dei risultati. Il soggetto individuale e collettivo è il progetto e non c’è alcuna limitazione. sAu nasce proprio con l’idea di farla finita con prediche e dichiarazioni. Si basa su un ‘pensare’ e ‘fare’ in maniera diversa. Per realizzare cose davvero utili, che rispondono ai bisogni del nostro tempo tenendo conto delle immense risorse di cui disponiamo. Chiunque voglia partecipare è benvenuto, il progetto è suo. In questo senso, la comunità di progetto e i portatori di interesse più diversi vanno nella direzione del realizzare un bene di uso ‘comune’.
La community di sAu ha il proprio logo e, anche in questo caso, è la congiunzione, la “e commerciale”, che assume rilevanza nella composizione generale. Intesa come luogo della partecipazione critica e appassionata, come ambito di progettazione e realizzazione condivise, la comunità è la congiunzione tra i diversi soggetti – individuali e collettivi – con i quali collaboriamo.
Chi scrive o può scrivere su questo nuovo giornale?

Il giornale racconta la vita di Scientia e di Usus che anima i nostri progetti. Dunque scrivono, collaborano le persone o che già sono nei progetti o che vorrebbero rafforzarli con un loro contributo. Ancora una volta è importante ribadire che si tratta di un giornale che viene scritto da coloro che, nelle forme più diverse, progettano e realizzano.

La vera scrittura sono i progetti che si sviluppano, e la scrittura del giornale è funzionale alla loro concretizzazione. Al raggiungimento concreto di risultati.

Il mezzo privilegiato è l’intervista. Anche in questo caso c’è una scelta da spiegare?

L’immagine di sAu è una rielaborazione realizzata a partire dai disegni di Leonardo da Vinci. Da questa immagine deriva il codice colore, per cui gli articoli pubblicati nelle Officine di scientia nella sezione “Dalla scientia al’usus” sono in rosa-rosso, come l’immagine sulla sinistra, che rimanda alla dimensione astratta del pensiero e del sapere della comunità dei soggetti che pubblicano i propri autorevoli contributi sul giornale. Gli articoli “Dall’usus alla scientia”, in grigio-celeste, riprendono l’immagine a destra, che rimanda alla concretezza dei fatti urbani e si sviluppano in una costruzione continua, a partire dall’esperienza di vita e di lavoro. 

La conversazione è un elemento davvero fondamentale per la Comunicazione Generativa. Riuscire a recuperare l’arte del conversare ha un senso ben preciso, perché, attraverso l’intervista, l’intervistato e l’intervistatore riescono ad ampliare le loro menti, in uno scambio maieutico fondamentale.

Ma ciò non toglie che la sperimentazione linguistica e comunicativa sarà un elemento fondamentale del giornale.

In ogni caso la cosa imprescindibile è che qualsiasi idea o esperienza comunicativa portata avanti nelle ‘officine’ debba avere come punto di riferimento i progetti-prodotti, debba servire a rafforzarli.

I progetti-prodotti sono la bussola di tutto: si pensa e si ragiona in funzione della realizzazione di qualcosa, perché in un’epoca così inedita come la nostra portare a termine una sperimentazione – per quanto provvisoria e parziale essa possa essere – è fonte essenziale di nuovi saperi, di nuove pratiche e abilità.

Gli autori sono retribuiti?
L’autore se scrive per questo progetto avrà in cambio la percezione e la conferma concreta di far parte di un progetto e di stare dando un contributo fondamentale a far sì che esso ottenga il miglior risultato che si può ottenere.
I contenuti saranno fruibili gratuitamente?

Un giornale di questa natura ha bisogno di un comitato tecnico scientifico?
Ogni progetto ha uno o più comitati che sono scientifici e tecnici.

Per la revisione dei contenuti avete un processo di ‘double blind peer review’?

Credo che questa idea del ‘double blind peer review’ sia il cuore di un meccanismo che dichiara sì di voler garantire la qualità nella ricerca, nella scelta degli studiosi, dei ricercatori, dei docenti, ma che nei fatti, visibili a tutti, ha dato dei risultati assai contraddittori; se non altro favorendo la sciagurata idea che i settori scientifici disciplinari debbano essere ben separati tra loro. Ma un mondo come il nostro richiede quotidianamente che nell’usus (in tutte le sue declinazioni possibili) le competenze si confondano, si incontrino, si mescolino. Vi è bisogno di persone che difendano le specializzazioni avvalendosi di ibridazioni continue con altre discipline. Noi abbiamo bisogno di dare vita a un melting-pot nuovo, se vogliamo costruire un mondo nuovo. Oggi credo che per una rivista, un giornale e attività di progetto come quella di “sAu” si ha bisogno di tenere gli occhi molto aperti, di conoscere le persone e valutarne le storie, profilarle, dare ad ogni soggetto una fortissima identità, per conoscerla e approfondirla. Solo così è possibile capire cosa di nuovo e di meglio possiamo fare insieme.
La cecità (blindness) come garanzia di trasparenza non è un paradosso? Un’ammissione di diffidenza e sfiducia?
Sono d’accordo. I veri ciechi al contrario riescono nella loro sofferenza a scoprire e potenziare molte altre capacità, abilità.
sAu ha il suo Knowledge Management System – la sAu Library – attraverso cui raccoglie le conoscenze ricavate dall’incontro, dal confronto e dal dialogo con i soggetti che contribuiscono o hanno contributo ai progetti. Sotto forma di volumi, documenti, report, immagini, video, audio-podcast, etc. Ma la sAu Library non è soltanto questo: è un luogo di condivisione e di apertura verso le possibilità offerte dall’incontro/scontro di saperi e competenze, disponibile per tutti coloro che fanno parte della comunità di sAu e che sono interessati a studiare e approfondire differenti modi di intendere e di praticare la comunicazione, mettendo in comune le proprie risorse di conoscenza e andando oltre la solitudine delle specializzazioni.
Hai idea di chi e quanti potrebbero essere i lettori delle ‘officine’?
No. L’importante è migliorare progressivamente la qualità dei progetti. Se la loro qualità aumenterà si allargherà anche la comunità di sAu.
Perché un nuovo giornale allora? Non sarebbe bastato usare i multiblog o i social network disponibili?

Credo che il problema non sia questo, ma sia capire che questo giornale costruisce una relazione strettissima, generativa, fra realizzare e i saperi, fra concretizzare e le competenze. 

In questo senso, ritengo che finalmente la comunicazione possa abdicare al ruolo negativo che ha ricoperto negli ultimi anni: l’essere un contenitore. E possa davvero iniziare ad essere un contenuto; e partendo dai contenuti definire le forme di comunicazione più adeguate. Il rapporto dovrebbe essere invertito. 

Sono i contenuti che fanno la comunicazione e non viceversa. Magari rileggendo McLuhan scopriremo che la frase “the medium is the message” voleva dire qualcos’altro …

Sau e le Officine hanno ambizioni politiche?

Certo, come ho cercato di spiegare fino ad ora, si tratta di un progetto politico.

Possiamo dire che il progetto politico consiste nell’organizzare e progettare la partecipazione?

Quando parliamo di progetto politico dobbiamo premettere che ci troviamo davanti a una fase di grande crisi, ma soprattutto di grandi opportunità. Queste opportunità potranno esprimersi soltanto se saremo pronti a rifondare una comunità valorizzando la storia da cui veniamo e, al contempo, a ridefinire l’idea stessa di comunità. Si tratta di decidere la comunità che vogliamo costruire, partendo dai valori su cui essa deve basarsi. Solo definendo questi valori sarà possibile dare vita a una partecipazione che favorisce la varietà di idee e di visioni e che genera soluzioni in cui i diversi interessi in gioco possono convergere.

Forse questo porterà a ridefinire anche l’idea di politica che abbiamo: essere parte di una polis nuova, che ha bisogno di una comunicazione altrettanto nuova. Pensiamo alla dimensione conflittuale. La dinamica che vuole vincitore ‘chi urla più forte’ deve essere sovvertita, impostando una comunicazione che porti il confronto tra idee divergenti verso la generazione di soluzioni inedite, cui prima non si era pensato. Questa dinamica ha bisogno di un approccio generativo e creativo, e deve essere valorizzata per condurci alla creazione di una nuova idea di comunità. Anticipare e immaginare il nuovo è quello che porta ogni individuo a essere creativo, disposto al possibile e al mutamento. 

La nuova comunicazione, quella cioè che può generare ‘comunità’, non ha bisogno di strumenti e processi partecipativi astratti, formalizzati come accade, bene o male, ormai da anni. Necessità di contenuti inediti, attorno cui aggregare portatori di interessi anche lontani, non tradizionali e – perché no? – conflittuali, i quali così possano scoprire il valore di una progettualità condivisa.

In questo senso la Comunicazione Generativa che anima la comunità di sAu è fortemente partecipativa, ma deve essere chiaro che mira a trasformare ogni atto di cittadinanza, ogni azione di vita normale in un atto partecipativo. In questo senso la comunità di sAu è profondamente politica.

In che modo la scrittura può farsi partecipazione?

L’idea da cui siamo partiti si può formulare nei seguenti termini: i ruoli non sono mai definiti una volta per tutti, essi giornalmente sono verificati, pesati sulla base di una valutazione che è, prima di tutto, un’autovalutazione che passa attraverso la scrittura e la lettura. Ognuno deve capire se in quel ruolo si sente nella condizione migliore per esprimere il meglio di sé. Al contempo vi è una valutazione anche degli altri, che possono aiutare una persona o un gruppo a rendersi conto delle difficoltà che sta incontrando attraverso una comunicazione di comunità. La logica alla base di sAu è che si propone un tipo di collaborazione nel ‘fare’ in cui sia possibile riflettere, conversare e scrivere simultaneamente alle azioni. La comunità mette le persone nella condizione di poter realizzare cose per sé stesso e per il gruppo di cui fa parte, avendo un ruolo stabilito all’interno dell’attività progettuale, che giorno dopo giorno si va a verificare. 

Il giornale è prima di tutto un grande strumento di valutazione, di analisi e di ideazione per ogni progetto che fa parte della comunità di sAu. In genere siamo abituati a meccanismi in cui le persone sono cooptate affidando loro un ruolo, un impegno, una funzione. Una comunità come quella di sAu propone un patto comunicativo completamente diverso, un patto che si scrive insieme. Quindi è fondamentale che le persone prendano iniziative. Questa capacità di contribuire, attivarsi, non viene vista come un problema perché va a scombussolare l’organizzazione preesistente. Se un soggetto si attiva e il suo attivarsi porta dei risultati importanti e significativi non sarà certo l’organizzazione all’interno della quale opera ad inibire la sua capacità di intrapresa, il suo bisogno d’impresa. I progetti di sAu sono un’impresa basata su infinite imprese individuali. Non credo che si correrà mai il rischio che un contributo davvero valido e importante possa essere inibito perché l’organizzazione lo deprime. Se nell’eventualità di contributo nuovo che giunge dall’esterno il sistema reagirà in maniera da inibire e bloccare un contenuto buono, vorrà dire allora che il sistema è sbagliato. 

Il sistema dei progetti sAu è costituito in modo tale che se qualcosa di interessante e innovativo arriva davvero, esso si arricchisce di un’impresa ulteriore (individuale o di gruppo). Una buona e complessa organizzazione consente che l’elemento costruttivo e di arricchimento possa sempre entrare a tutti gli effetti dentro al sistema progettuale. Questo è importante ed è la ragione per cui non bisogna mai aspettare. Si aspetta sempre ma in un altro senso. 

La libera impresa è tanto predicata ma, in realtà, poco praticata nell’attuale organizzazione sociale, economica, politica, culturale. Al contrario si massificano la diversità e il tentativo di essere diversi e sperimentare cose nuove. Io penso che la comunità di sAu dovrebbe cercare di dare valore a ciò che viene fatto su un progetto, soprattutto nella misura in cui questo comporta anche un riaggiustamento dell’intero progetto. Questa osmosi, questa innovazione nel corso dell’azione non è un danno, ma un valore in più che viene dato al progetto stesso.

Il giornale è prima di tutto un grande strumento di valutazione, di analisi e di ideazione per ogni progetto che fa parte della comunità di sAu. In genere siamo abituati a meccanismi in cui le persone sono cooptate affidando loro un ruolo, un impegno, una funzione. Una comunità come quella di sAu propone un patto comunicativo completamente diverso, un patto che si scrive insieme. Quindi è fondamentale che le persone prendano iniziative
In che modo i vostri committenti accettano un’ ingerenza sulla loro organizzazione interna?
Nei nostri interventi lavoriamo sulla possibilità di creare contenuti nuovi, per costruire sistemi di cui si ha realmente bisogno. Oggetti ispirati a valori in cui tutti si riconoscono come nel frutto di una strategia nuova e condivisa. Quando veniamo sollecitati a lavorare da un’impresa pubblica e privata, ci troviamo davanti a strutture, pratiche e flussi di comunicazione molto consolidati. Lo sforzo che noi chiediamo con il nostro intervento allora è quello di mettere in discussione l’organizzazione stabilita, andando verso processi generativi di creatività e di innovazione. Interveniamo, di fatto, sulla cultura dell’organizzazione e della comunicazione dei nostri interlocutori. Quando introduciamo elementi innovativi cerchiamo di far emergere le risorse inespresse e inibite all’interno delle stesse organizzazioni con cui collaboriamo. Cerchiamo di rafforzare il senso di appartenenza all’organizzazione. La partecipazione, quindi, la stimoliamo motivando le risorse umane e valorizzando le conoscenze e le competenze esistenti. Facciamo emergere l’intelligenza critica portando ogni soggetto ad essere propositivo anche dove il sistema ha inibito la capacità creativa. Ma come lo facciamo? Partiamo dalla centralità dei contenuti, delle nuove conoscenze e delle creatività attorno ai quali aggregare la comunità. Questo perché credo fermamente che non esistano sistemi, con relativi flussi e strutture, neutrali ma fortemente orientati dall’idea di organizzazione e dai valori con cui sono stati concepiti.
Ogni progetto prevede una comunità che parte da interessi specifici, discute e si divide per poi convergere su obiettivi comuni. Come gestite gli eventuali conflitti di percorso?
La parola ‘conflitto’ è complicata perché ha a che fare con persone che si scontrano e che hanno contrasto di interessi, visioni, obiettivi. Con qualcuno che vince e qualcuno che perde. Io penso piuttosto che il conflitto vada visto accentuando la prima parte della parola, ossia il ‘con’ (cum). In questo senso diviene un confronto che genera diversità: un valore. Spero e mi auguro – così come lo sperano le persone che lavorano con noi sui nostri progetti – che ci sia allora conflitto di idee, esperienze e obiettivi perché questo arricchisce un progetto. Allora non c’è un conflitto in cui uno vince e uno perde, ma un processo in cui prevale il bene e l’interesse comune che scaturisce da un lavoro di comunità. Al contrario, in questo oceano immobile di conformismo si cela una conflittualità a livelli profondi oceanici, tra piccoli e mediocri interessi che non riescono a percuotere la superficie. C’è un progressivo desiderio di essere tutti uguali, confondendolo per uguaglianza. È necessario invece tentare una progettualità che richiede conflittualità, sperando che possa generare qualcosa di nuovo. Ad esempio, se io ho un progetto dedicato all’olio d’oliva è facile aggregare chi produce l’olio, coloro che appartengono in maniera uniforme e prevedibile al processo produttivo. Quello che è difficile è immaginare attività che non sono mai state collegate all’olio d’oliva; cercare di chiederci se attività così remote possono essere d’aiuto per fare un bel progetto sull’olio d’oliva. Se visioni le più conflittuali possono orientarci rispetto alla storia che ha portato alla crisi dell’olio d’oliva, alle ulivete abbandonate che straziano il paesaggio e le diverse potenzialità economiche connesse. Dobbiamo riuscire ad essere conflittuali rispetto a questa omogeneità, inventando potenziali portatori di interesse per creare conflitto con la vecchia e inadeguata visione della mera produzione dell’olio extravergine d’oliva. Ben vengano i conflitti, non sono perdite di tempo. Le immense risorse che noi non riusciamo a vedere possono essere riconosciute e valorizzate soltanto se usciamo dalla vulgata di mettere insieme le idee, le cose e le persone uguali e di tenere lontano ciò che è diverso.
Attualmente siete a lavoro per gli ‘stati generali’ dello spettacolo dal vivo, dopo due anni difficili per la cultura, i teatri, gli artisti. Puoi parlarci di questo progetto?

Si tratta di una sfida ambiziosa e molto innovativa. Da diverse settimane stiamo realizzando un percorso partecipativo insieme a Fondazione Toscana Spettacolo, Regione Toscana e Anci, che vivrà un momento finale di restituzione pubblica. 

L’obiettivo è quello di rigenerare un settore come quello dello spettacolo dal vivo che è profondamente in crisi. E uso il verbo rigenerare per distinguerlo da produrre.  L’arte, la cultura, lo spettacolo sono ‘generazione’ non ‘produzione’ o ‘riproduzione’. 

L’arte, la cultura, lo spettacolo sono ‘generazione’ non ‘produzione’ o ‘riproduzione’. Mentre le macchine producono gli esseri umani generano.

Mentre le macchine producono, gli esseri umani generano. E un’opera lirica, un balletto, un concerto produce o genera? 

Certo potremmo dire che produce degli effetti, ma cosa succede quando avviene uno spettacolo? Proviamo a immaginare. Lo spettacolo ci entra dentro e se siamo presenti possiamo contribuire, vivere attraverso una performance. Anche quando uno spettacolo finisce noi che usciamo da quella dimensione guardiamo la vita con altri occhi e vorremmo che quel bello spettacolo diventasse la nostra vita, una vita nuova e diversa. 

Anche gli stati generali dunque per rigenerare l’ambito dello spettacolo dal vivo dovranno avere queste caratteristiche generative di apertura, creatività, libertà espressiva. Ed è un merito dei decisori politici aver posto questa esigenza dopo un periodo difficile, in cui la presenza, i legami, l’azione reciproca è stata pesantemente inibita, così come ridotta è stata l’azione della cultura e dell’arte sulla vita mentale, affettiva e fisica delle nostre comunità.

Cosa accadrà nelle prossime settimane?

Daremo vita a una vasta conversazione on line in un ambiente di comunicazione e di progettazione del tipo “scientia Atque usus”, cui si potrà prendere parte iscrivendosi liberamente. La discussione sarà permanente e senza limiti di orario, organizzata in 4 tavoli di lavoro proposti dal comitato tecnico scientifico di progetto. I tavoli si occuperanno di temi come il ricambio generazionale, l’affiancamento professionale, la ricerca dei nuovi pubblici e delle nuove scene, del ruolo dei privati e delle alleanze strategiche per gli investimenti. 

Ogni tavolo di lavoro sarà moderato da esperti che accoglieranno i contributi degli stakeholder condividendoli su un piano orizzontale con gli altri soggetti coinvolti. Attraverso l’ambiente “scientia Atque usus” ciascuno degli iscritti potrà leggere e monitorare i contributi che emergeranno. Questo flusso di lavoro durerà per circa un mese e alimenterà un documento finale che sarà restituito ai decisori politici.

La crisi in corso non è solo economica?

Non sono in gioco solo questioni economiche legate al turismo e ai settori produttivi, ma è in gioco il valore della democrazia. Gli stati generali dello spettacolo dal vivo rispondo a questa esigenza profonda. Stanno dando vita a una vasta partecipazione di artisti, tecnici, pubblici per un progetto comune. Un processo di community building in cui i decisori politici, gli stakeholders e i cittadini, pur nella loro diversità, accettano un patto comunicativo per realizzare qualcosa di nuovo insieme, partendo dal diritto di parola per tutti e su un piano orizzontale. Tutti i nodi, le aspettative, le criticità, le idee e le visioni verranno esplicitate e analizzate in una dimensione pubblica. Questa idea di democrazia – che non è oligarchia camuffata – si costruisce attraverso una ‘comunicazione’ diversa che non può essere solo marketing, promozione e pubblicità. Da questo sentiero passa anche la ripresa del paese che tutti attendiamo e per questo motivo gli ‘stati generali dello spettacolo dal vivo’ avranno un significato e un valore politico molto ampio ed esteso.

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